IL PERSONAGGIO. Giuseppe Li Rosi è un siciliano che ha scommesso sul recupero e la semina delle antiche “accessioni” di germoplasma di grano duro dell’isola. Sfidando le multinazionali.
«Questo pane è il mio, è il mio pane chè l’ho fatto fare nel mio panificio. E so che cosa c’è in questo pane, conosco il seme del grano che ho seminato io, il lievito naturale che ho utilizzato io. E so che cosa c’è in questo pane, perché lo debbo dare anche ai miei bambini….».
E' sulla linea di confine fra cinema sociale, cinema di finzione e cinema etnografico, che si sviluppa fin dall’inizio il bellissimo documentario La chiave rubata della città del grano realizzato dai registi belgi Jean-Christophe Lamy e Paul-Jean Vranken. La camera fissa il protagonista del film, Giuseppe Li Rosi, agricoltore di Raddusa, che documenta la cultura e l’identità di un luogo, che guarda alla terra, alla sua terra, non come risorsa economica ma come un’entità unica che vive e si comporta come sistema autoregolato formato dai suoi componenti fisici, chimici biologici. Li Rosi è un siciliano che ha scommesso sul recupero e la semina delle antiche accessioni di germoplasma di grano duro dell’isola.
Come è nata l’idea di “La chiave rubata della città del grano”?
Il documentario è una denuncia e al tempo stesso una sfida alle multinazionali sementiere che con il loro sistema industriale e inquinante hanno distrutto i tre quarti della biodiversità agricola mondiale.
La produzione biologica non coincide con la necessità di prodotti pronti e veloci.
La catena distributiva, oltre ad avere omologato il cibo attraverso richieste di standardizzazione del prodotto, pressa il produttore affinchè questi applichi lo stesso concetto sulla natura: regolarla come fosse un motore meccanico! La smania di poterlo fare ha portato l’uomo a tentare di modificare le leggi della natura ed i tempi naturali della produzione.
Come parte la tua rivoluzione?
Ho iniziato circa dieci anni fa a seminare in biologico una prima popolazione di grano antico, la tumminìa, iniziando da pochi chili che la Stazione Sperimentale di Granicoltura per la Sicilia di Caltagirone mi aveva affidato, gli anni a seguire ho introdotto altre popolazioni di grano come margherito, sicilia, tunisino, un tenero chiamato maiorca, il farru longu e oggi, avendo convertito anche l’altra azienda di famiglia in biologico, sono circa 100 gli ettari seminati ad ecotipi locali.
Parliamo di semi autoctoni che erano scomparsi.
Non lo erano ancora ma si trovavano sul punto di. Oggi per le quattro varietà che conservo e moltiplico c’è abbastanza sementi in giro per poter affermare che non corrono alcun rischio di estinzione. Insieme alla “conversione” ai grani antichi, ho voluto riprendere anche una mansione che spettava al contadino, ovvero produrre cibo anziché limitarmi a produrre solo materia prima. Ho aperto un panificio per produrre pane con lievito madre a pasta acida, produco farine per chi vuole farsi il pane, la pasta e la pizza in casa. Insomma non ho voluto solo salvare i semi dall’estinzione ma ho desiderato tanto invitarli a tavola.
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