Emanuele Ferragina, Università di Oxford |
di Alberto Mucci
Il libro di Ferragina, italiano a Oxford. Pensioni sproporzionate e niente aiuti ai giovani: così l’Italia coltiva la disuguaglianza.
Londra. Trent’anni, nato a Catanzaro e adesso vive a Oxford. Emanuele Ferragina è lecturer presso l’Oxford Institute of Social Policy (Oisp) dove si occupa di politiche sociali, capitale sociale e disuguaglianza. Assieme ad un gruppo di giovani ricercatori italiani due anni fa ha fondato il centro studi Fonderia Oxford che si occupa di proporre politiche per l'Italia. Il 13 marzo scorso ha pubblicato per Rizzoli-BUR Chi Troppo Chi Niente. Nel libro Farragina sostiene che ridurre le disuguaglianze di opportunità e condizione non dovrebbe essere fatto per ragioni ideologiche, ma piuttosto per rendere il sistema Italia più efficiente e produttivo. Sotto un grafico elaborato dall’autore (sulla base dei dati forniti dalla Banca d’Italia) che mostra, come si sia spostata la distribuzione della ricchezza tra varie categorie sociali nel periodo che va dal 1987 al 2008. Un dato che pur con tutte le cautele dovute al peso dell’economia sommersa e l'incidenza del lavoro autonomo conferma un trend ormai consolidato in tutto il mondo occidentale.
Prima di cominciare un tour in Italia per la presentazione del libro ha trovato il tempo di un’intervista con Linkiesta.
In Chi Troppo Chi Niente scrivi che “il welfare state italiano non solo alimenta le disuguaglianze, ma ripartisce anche la spesa in modo inefficiente”. Puoi spiegare più nel dettaglio come si è arrivati a una situazione così paradossale?
Parto dal caso più eclatante: le pensioni. In termini di percentuale di Pil, la spesa sociale italiana con il suo 24,86 per cento è nella media europea. Il problema però è che di questa percentuale lo stato utilizza il 57 per cento (circa il 14 per cento del Pil) per le pensioni. Una cifra enorme e ben al di sopra della media europea. Bisogna anche evidenziare che la spesa previdenziale è una spesa passiva, poco rilevante per la crescita. I giovani, invece, la forza potenzialmente più produttiva del paese e con il maggior capitale umano non-sfruttato, sono lasciati alla deriva, con pochissima assistenza e scarsi incentivi. La Finlandia pur avendo una spesa sociale praticamente uguale a quella Italia (in rapporto al Pil) impegna solamente il 9 per cento del Pil per garantire le pensioni. La differenza di punti percentuali esistente tra il paese scandinavo e l'Italia va a sostenere categorie completamente trascurate nel nostro paese: le donne in cerca d'occupazione, i giovani come appena detto, le coppie appena sposate, i disabili. E non solo. In Italia diversamente da molti altri paesi Europei non esiste né un sussidio universale di disoccupazione né tantomeno un reddito minimo garantito. Certamente ci sono misure che sostengono chi perde un lavoro, come la cassa integrazione, ma queste forme di protezione oltre ad essere totalmente passive e non supportare il rientro dei disoccupati sul mercato del lavoro non tutelano gli oltre 3 milioni di lavoratori precari. Una delle categorie più deboli e demunite nel nostro paese.
A parte la Grecia, in Europa siamo gli unici a non avere il reddito minimo garantito. Ha in mente una manovra per coprire i costi per implementarlo?
Sì. Parto di nuovo dalle pensioni. Ogni anno l’Italia spende 240 miliardi di euro in previdenza per gli anziani. Una cifra enorme. Per garantire insieme un sussidio di disoccupazione e un reddito minimo garantito ne servirebbero meno di 20, un dodicesimo. Più nel dettaglio. Ampliando le misure che assicurano il reddito minimo garantito (intorno ai 400 euro mensili) già presenti in alcune regioni come Toscana e Emilia, il costo totale sarebbe di circa 7 miliardi di euro. Per quanto riguarda invece il sussidio di disoccupazione il costo sarebbe intorno ai 10 miliardi di euro. Cifre non impossibili da trovare. Un metodo di finanziamento è la riduzione delle pensioni più generose. Ci sono circa 2,2 milioni di pensionati che ricevono una media di 2.909 euro al mese. Allora è importante ricordare che per tutti coloro i quali hanno iniziato a lavorare prima del 1978 il sistema pensionistico era retributivo e il lavoratore riceveva tra l’80 e il 100 percento del suo ultimo stipendio. Il problema è che questi pensionati non hanno contribuito a sufficienza per coprire le pensioni che ricevono oggi: in media solo il 50 per cento. Il risultato? Le loro pensioni sono d’oro, quelle dei giovani da fame. Una diseguaglianza enorme che va affrontata. Ed è quello uno dei privilegi che bisogna andare a colpire per pagare almeno in parte i sussidi di disoccupazione e il reddito minimo.
In quali altri modi si potrebbe facilitare la diminuzione della crescente diseguaglianza?
Un secondo nodo da affrontare è quello dell’attuale modello di tassazione. Bisogna spostare con decisione parte della tassazione dal reddito al patrimonio. Un paese di tendenza liberale come il Regno Unito tassa con più forza dell’Italia il patrimonio. Il risultato è che il patrimonio dei dieci italiani più ricchi è uguale a quello dei 3 milioni di italiani più poveri. Non si può andare avanti così. A parte Stati Uniti, Portogallo, Messico e Grecia siamo i peggiori nella classifica dei paesi OCSE per il livello di diseguaglianza economica. C’è poi il problema dell’evasione fiscale e a quello c’è solo una soluzione: combatterla con più convinzione.
Nel libro leghi l’idea di uguaglianza con quella di efficienza. Può spiegare il concetto più nel dettaglio.
Basta pensare ai 28 ordini professionali in Italia: vanno riformati. Gli ordini sono nati per difendere il consumatore in mercati caratterizzati da asimmetria di informazione. Questi sono quelli in cui il cittadino non ha le competenze per giudicare la qualità e il prezzo di un servizio specialistico, come per esempio una consulenza legale o una visita medica. L’ordine fa quindi da garante. Questo è giusto perché in teoria protegge il consumatore. Quello che non va sono tutte le barriere all'entrata che fanno dell’ordine una categoria statica che crea rendite di posizione inaccettabili per alcuni suoi membri. Ti faccio un esempio: se un giovane avvocato vuole costruirsi un portafoglio clienti non può decidere di avere tariffe più basse di quelle stabilite dell’ordine. Questa è una perdita sia per il giovane avvocato sia per il consumatore che spenderebbe di meno. C’è inoltre il grande problema dei “cervelli” che se ne vanno. Tra le tante ragioni che li portano a emigrare c’è anche quella di non voler sottostare alle regole troppo restrittive di alcuni ordini. Se un ragazzo o una ragazza non è fortunato/a abbastanza da avere un genitore che lo puo’ aiutare (perché già inserito nella professione) è molto piu’ difficile che riesca ad accedere a un ordine.
Perché il mondo della politica secondo lei ha smesso di parlare di uguaglianza?
Questa è una domanda complicata. Ci sono diversi motivi. A livello generale con la fine della guerra fredda e l'avvento della globalizzazione, tutti i partiti di ispirazione social-democratica in Europa hanno cominciato ad inseguire i partiti conservatori spostandosi sempre di più verso il centro. Basta pensare al Labour inglese o alla Spd tedesca negli anni novanta e nel duemila. Si è anche venuto a creare un sentimento di impotenza che porta molti a pensare che nel presente momento economico non ci sia nulla da fare per garantire i più deboli. E invece non è assolutamente così: le cose si possono cambiare. Si devono cambiare. Bisogna iniziare a parlare di uguaglianza in un modo un po’ piu’ preciso, ripartendo da quelle categorie che non votano più il partito democratico: disoccupati, lavoratori atipici e famiglie a basso reddito.
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