sabato 28 maggio 2011

Storia d'Italia: come gli Agnelli si sono impadroniti della FIAT (ovvero, una truffa ben congegnata)

John Philip Jacob Elkann, primogenito di Margherita Agnelli e del
suo primo marito Alain Elkann, giornalista e scrittore italo-francese.
L'ultimo rampollo di casa Agnelli è presidente di Fiat SpA, Exor e
della Giovanni Agnelli e C..

La FIAT viene identificata da tutti con la famiglia Agnelli. Ma non è nata per loro iniziativa, e il modo con cui se ne sono impossessati fornisce un esempio classico del funzionamento del capitalismo. La FIAT era nata l’11 luglio 1899 per iniziativa di un gruppo di imprenditori affascinati dalle prospettive dell’automobile: il conte Roberto Biscaretti di Ruffia, che già importava automobili da corsa dalla Germania, il conte Emanuele Cacherano di Bricherasio, l’avvocato Carlo Racca, Michele Lanza, un modesto produttore di candele (non per automobili, ma di cera), e l’avvocato Cesare Goria-Gatti, il redditiere Lodovico Scarfiotti, il banchiere e setaiolo Michele Ceriana-Mayneri, un agente di cambio, Luigi Damevino, e un terzo nobile, il marchese Alfonso Ferrero de Gubernatis di Ventimiglia. Giovanni Agnelli entra successivamente come piccolo azionista. Nell’assemblea dei soci, il consiglio di amministrazione era stato formato solo dai “padri fondatori” che abbiamo ricordato.

Presidente era stato eletto lo Scarfiotti, vicepresidente il Bricherasio, che tuttavia era irritato perché avrebbe desiderato essere lui il presidente. Elette le cariche minori, il conte Biscaretti si accorse che mancava un segretario, un incarico puramente formale che per consuetudine si assegnava al più giovane dei presenti o a un semplice impiegato. In fretta e furia venne votato il nome di Giovanni Agnelli, a cui nessuno dava la minima importanza, soprattutto perché non era né nobile, né appartenente alle grandi famiglie borghesi come tutti gli altri.

Nelle prime riunioni del Consiglio di amministrazione Giovanni Agnelli tace; ma poi comincia ad allargare la propria influenza, attaccando il direttore tecnico, Aristide Faccioli, un progettatore fin troppo geniale, che finirà per doversi dimettere per le continue ingerenze che limitano la sua autonomia. Giocando in seguito sulle gelosie e rivalità tra i soci fondatori, egli si fa proporre come “membro delegato del consiglio” e poi amministratore delegato, con ampi poteri. Ma ancora senza un pacchetto azionario consistente.

Solo nel 1906 riesce a fare il gran colpo. La FIAT ha ormai 1.500 operai, produce nove modelli diversi. Per raggiungere le 600 vetture annue, si comincia a lavorare anche di notte. Gli utili, dopo i primi due anni (che risultavano in perdita), passano da 152.000 lire del 1902 a 394.000 nel 1904 e a 2,5 milioni nell’anno successivo. In quell’anno il Re Vittorio Emanuele, che fin da quando era principe ereditario si era espresso aspramente contro quelle macchine “pericolose ed abominevoli”, venne salvato dal principe Colonna da un fastidioso guasto di un treno, alle porte di Roma, con una FIAT: aveva così provato, per la prima volta, un’autovettura, e ne era rimasto così soddisfatto da concedere allo stabilimento il titolo di “Fornitore della Real Casa”.

Intanto, con la connivenza dell’unico suo complice nel Consiglio di amministrazione, Luigi Damevino, Agnelli fa passare la proposta di ridurre ad un ottavo il valore nominale delle azioni, con il risultato di invogliare un gran numero di acquirenti; il valore reale, anziché ridursi, raddoppio: e una parte notevole finì nelle mani dei due compari.

Successivamente, con un gioco complesso in cui entrano due istituti bancari – tra cui la Banca Commerciale – vengono dapprima annunciati dividendi favolosi, poi pagati indebitandosi con le banche (quindi senza alcun fondamento reale), mentre un cambiamento di ragione sociale e l’emissione di nuove azioni porta ad un effettivo “esproprio” di cinque dei vecchi fondatori, i quali rimangono con sole 2.000 azioni ciascuno. Agnelli, Damevino e Scarfiotti (che si è unito ai due compari), sono invece entrati in proprietà di 37.000 azioni. Tra le attività della società sono comparse (e non spariranno mai) forniture militari di vario genere, tra cui 8 sottomarini commissionati dal governo italiano (ma commissionati anche dal governo tedesco, e persino quando ormai la prima guerra mondiale era già iniziata e vedeva Italia e Germania schierate su opposti fronti, dando prova del famoso “patriottismo” degli industriali, i quali le parole “Patria” e “Stato” le ricordano solo quando devono battere a cassa per mungere denaro della collettività! n.d.r.). Il 7 luglio 1907, il primo crollo della borsa in Italia trascina nella polvere per qualche tempo i titoli FIAT; ma il terremoto serve ad un’uteriore concentrazione nelle mani dei tre avventurieri.

Il "truffatore": Giovanni Agnelli senior.Il giornale giolittiano La Stampa, che diventerà solo successivamente di proprietà degli Agnelli (anche se si farebbe meglio a chiamarli “Lupi” o meglio ancora “avvoltoi”! n.d.r.), comincia a denunciare la truffa ai danni della vecchia maggioranza del Consiglio di Amministrazione; il 23 giugno 1908, la Questura denuncia Giovanni Agnelli per “illecita coalizione, aggiotaggio in borsa e alterazione di bilanci sociali” (un Berlusconi ante litteram! n.d.r.). Sono coinvolti anche il solito Damevino e il presidente Scarfiotti.

I capi d’accusa risultano particolarmente gravi e circostanziati: la procura assicurava “non esservi ragionevole dubbio” che la crisi finanziaria della FIAT dovesse “attribuirsi ai loschi intrighi dei suoi amministratori”. I tre si sarebebro arricchiti ed avrebbero assunto il controllo della società, in danno degli altri azionisti, attraverso queste manovre:

       - spargendo “false notizie di colossali commesse ricevute dall’America, poi rivelatesi inesistenti”;

       - rassicurando gli azionisti sulle condizioni della società, pagando dividendi esagerati grazie ad un mutuo passivo di parecchi milioni;

       - accreditando con “bilanci fittizi” una propsperità della FIAT che, in quel momento, non esisteva.

Lo scandalo fu enorme, ma non vi fu arresto per nessuno. Si dimise, intanto, l’intero vertice, mentre proprio Agnelli veniva incaricato temporaneamente dell’ordinaria amministrazione per la continuità dell’azienda. In suo favore interveniva il ministro di Grazia e Giustizia, Vittorio Emanuele Orlando, il quale esercitava una spudorata pressione sulla procura, ricordando che l’indagine processuale avrebbe potuto “influire in modo sinistro sulla sorte di industrie locali, che sono pure notevoli elementi dell’industria nazionale”. Un imponente collegio difensivo faceva protrarre l’inchiesta per anni, finchè l’opinione pubblica, distratta dalla imminenza della guerra ed esaltata dalla vittoria in Libia (attribuita da tutta la stampa agli autocarri 15 bis forniti dalla FIAT), non si accorgeva neppure dell’assoluzione con formula piena di Giovanni Agnelli e dei suoi compari. L’unico a pagare era stato il presidente Scarfiotti.

Alla fine della guerra, nel corso della quale la FIAT ha prodotto automezzi ed armi, navi da trasporto e da guerra, ha inviato i suoi emissaria  Mosca e a Vienna (uno di essi, Adolf Egger, era per ragioni inesplicabili presente nel corteo dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria a Sarajevo, al momento dell’attentato) e ha costituito varie società -  con sedi in diversi paesi – per l’importazione di carbone, ecc., Agnelli riesce ad eliminare i concorrenti e a diventare, da solo, proprietario del 55% del capitale azionario. 

La FIAT in camicia nera.

I quadrumviri.Alla vigilia della “marcia su Roma”, i giornali controllati da Agnelli (che sono ormai molti) si schierano apertamente per Mussolini. E la FIAT, per vent’anni, “indosserà la camicia nera”. Se la toglierà solo il 25 luglio del 1943. Ma la sua ascesa, da modesta impresa locale a grande gruppo mondiale, è stata tutta determinata dal rapporto con il fascismo e le sue imprese di guerra. Seguimone le tappe.

Il 28 ottobre, Agnelli è tra i primi ad inviare un telegramma di felicitazioni a Mussolini e, presto, gli chiede ingenuamente di smobilitare le squadracce e di “mettere un freno ai ras di provincia” (cioè al “quadrumviro” De Vecchi, rozzo e ignorante), temendo siano controproducenti. Subito dopo, tuttavia, riconosce ai sindacati fascisti, che non avrebbero i requisiti di legge, il diritto di partecipare alle elezioni della commissione interna. A chi dei suoi amici liberali lo critica per questo gesto, Agnelli risponde che i sindacati fascisti avevano il merito di evitare la contrapposizione “muro contro muro” e di dissociarsi dalla Fiom, che era rimasta legata ai “vecchi metodi di lotta”, cioè allo sciopero. E siccome De Vecchi, viceversa, considera suoi nemici nel partito i sindacati fascisti, che puntano sulla demagogia e non solo sui manganelli, Agnelli lo scavalca, invitando Mussolini a Torino per l’inaugurazione dello stabilimento del Lingotto. Mussolini accetta, pur evitando lo scontro diretto con De Vecchi (che, anche in ambiente fascista, era soprannominato, per l’aspetto fisico e la scarsa intelligenza, “un cazzo con i baffi”, ma continuava a controllare le squadracce piemontesi).

Poiché Cesare Maria De Vecchi continuava a pregiudicare i rapporti con la FIAT, che definiva la “plutocrazia industriale”, Mussolini, per allontanarlo da Torino, lo chiama a Roma, con la promessa di un alto incarico e l’offerta del titolo nobiliare di conte di Val Cismon; lo spedirà poi come governatore in Somalia, dove De Vecchi farà stragi, ma si arricchirà rapidamente.

Ad Agnelli, invece, Mussolini fa arrivare prima della visita al Lingotto prevista per l’autunno, la nomina a senatore del regno, che viene fatta da re “su proposta del capo del governo”. E prepara la sua “marcia su Torino”, come la chiamerà Piero Gobetti. Per prevenire contestazioni, anche Giovanni Agnelli prende le sue misure: convoca le commissioni interne per informarle, e ai mugugni risponde che “ci sono tre modi per riceverlo: applaudire, tacere o sabotare. Vi lascio scegliere tra i primi due. Il terzo modo lo stroncherò con ogni mezzo”. La maggior parte degli invitati – selezionatissimi – al ricevimento, sceglieranno il secondo modo e gli operai rimasti al lavoro saranno dissuasi dal manifestarsi, vista la massiccia presenza di squadristi e di milizia.

Agnelli si compiaceva allora di far circolare la voce che fosse fascista a Roma e antifascista a Torino (bella cosa!), ma chiudeva il suo discorso con un “Viva Mussolini!”. Comincia a dire che è “mussoliniano”, ma non fascista… Intanto, ottiene dal “capo”, con cui stabilisce un rapporto diretto, oltre all’abolizione della nominatività dei titoli azionari, anche l’accantonamento dei provvedimenti di confisca dei sovraprofitti di guerra per gli industriali (che erano stati parte del programma demagogico del primo fascismo), la riduzione delle imposte di ricchezza mobile sulle società anonime e i loro amministratori e, soprattutto, lo scioglimento prima delle commissioni interne e poi dei sindacati, per dare vita al nuovo ordinamento corporativo.

Inoltre, con la complicità di ministri come Aldo Finzi (ebreo e fascista) e del quadrumviro Italo Balbo, il neosenatore Agnelli si impossessa di altri quotidiani sottratti all’opposizione, tra cui il Resto del Carlino. Al momento della crisi per l’assassinio di Giacomo Matteotti, il cui corpo risultò essere stato trasportato con un’auto di quel quotidiano bolognese, Agnelli tace a lungo, con grande stupore dei suoi vecchia mici liberali. Quando si arriverà al voto, Agnelli lo darà a Mussolini, che non dimenticherà.

L’attacco internazionale alla FIAT.

Agnelli ha, nel frattempo, acquistato la Juventus, per assicurarsi le simpatie popolari con la vecchia ricetta degli imperatori romani: panem et circenses. Introdurrà per primo le paghe favolose ai calciatori e inventerà gli “oriundi”, per aggirare le disposizione governative contro l’utilizzazione di giocatori stranieri. Ma soprattutto, consolida la struttura familiare di controllo dell’impero finanziario, che cresce a dismisura.

Nel 1929, ha già consistenti interessi nei Balcanie in Estremo Oriente, ma si trova subito in difficoltà. Riesce a resistere in Italia, ma perde colpi all’estero. La FORD che pure retribuisce i suoi operai quattro volte di più di quelli FIAT, riesce a vendere le sue vetture ad un prezzo quattro volte inferiore. La Francia, che era la migliore cliente della FIAT, alza i dazi doganali di entrata dal 25% al 60%. Il mercato esterno è praticamente perduto; il fatturato, tra il 1929 e il 1931, si riduce della metà.

Ma c’è un pericolo maggiore: la FORD tenta di sfondare sul mercato italiano, dopo essersi assicurata la collaborazione di una potente lobby di industriali e finanzieri milanesi e di un gruppo di gerarchi, tra cui Emilio De Bono (vecchio amico del De Vecchi) e Costanzo Ciano, il cui figlio Galeazzo aveva sposato Edda Mussolini e al quale era stato promesso che uno dei due stabilimenti Ford in Italia sarebbe stato costruito a Livorno, sua città natale. Partecipavano all’operazione anche il ministro Bottai e il presidente dell’Automobil Club Silvio Crespi. Questa lobby era tutt’altro che disinteressata, ma avanzava un argomento ragionevole: la concorrenza americana sarebbe stata utile, stimolandola, alla stessa FIAT, le cui difficoltà dipendevano da una generale carenza tecnica, da un’insufficiente programmazione e dalla mancanza di modelli utilitari. Il governo, poi, doveva temere ritorsioni internazionali a una troppo aperta politica protezionistica in favore della casa torinese.

Agnelli, affiancato ormai dal fedellissimo “professore” Vittorio Valletta, punta subito sullo spirito nazionalista di Mussolini, insofferente all’invadenza di prodotti stranieri, vista come una mortificazione dell’orgoglio nazionale. E Mussolini avoca a sé ogni decisione in materia, bloccando i piani della Ford, “che non può pretendere di rifarsi in Europa delle perdite che subisce a casa sua”. Anzi chiude d’autorità – per questioni “d’ordine nazionale” – gli impianti che il gruppo americano aveva già nel porto franco di Trieste. Gli azionisti FIAT salutano con gioia questa decisione, che blocca anche un altro tentativo della General Motors di installarsi in Italia, “considerandola alla stregua di una colonia”; e, il 6 marzo 1930, votano all’unanimità la proposta di ricordare la decisione del “duce” con un’epigrafe a caratteri d’oro, collocata nell’atrio principale del Lingotto.

I gerarchi fascisti, ormai legati agli interessi stranieri, non demordono: Costanzo Ciano scrive a Mussolini, segnalando che la FIAT, nonostante gli interventi in suo favore, aveva ridotto ulteriormente l’orario di lavoro (ovviamente con riduzione del salario) e aveva sospeso la produzione in vari reparti del lingotto. Invano. Quando la FIAT si rivolge a Mussolini avvertendo che, in mancanza di nuovi e ancora più energici provvedimenti contro la concorrenza estera, avrebbe dovuto adottare altre “gravi e dolorose decisioni” sul piano dell’occupazione, ottiene subito che i dazi doganali sulle autovetture estere vengono aumentati del 130% ed estesi anche alle parti staccate. Di fatto teme che la Ford ritorni all’attacco, attraverso un accordo di joint venture firmato con l’Isotta Fraschini per la produzione di un’autovettura utilitaria con maestranze italiane. La Ford ha sempre dietro di se Ciano, che scrive al “Duce” che anche “gli operai che lavorano nelle fabbriche milanesi o in altre parti d’Italia hanno diritto alla medesima protezione di quelli che lavorano in Fiat”. Inolte, segnala che nel capitale azionario sarebbero stati maggioritari due italiani: il conte Gian Riccardo Cella e Ludovico Mazzotti Biancinelli, ex dirigente dell’Ilva.

Ma Agnelli pone un tassativo “o con noi o contro di noi”, mentre qualcuno informa Mussolini che “dietro gli industriali milanesi si nascondono alcuni gerarchi del partito”. Dopo una vigorosa strigliata ai gerarchi lobbysti, il “duce” blocca la costituzione della joint venture, diffida attraverso Bottai la casa di Detroit dal continuare i suoi tentativi e, soprattutto, emana due decreti: il primo, riserva al governo di deciderequali industrie sono fondamentali “per la fabbricazione di prodotti essenziali per la difesa della nazione”; il secondo, riconosce tra questi l’industria dei trasporti terrestri. La FIAT ha vinto.

E la FIAT ricambia, sfornando finalmente, con il nome di “Balilla”, l’utilitaria voluta dal “duce” e i treni popolari, che vengono battezzati “littorine” in onore del fascio littorio. Nel 1932, una nuova visita di Mussolini al Lingotto si rivela ben diversa dalla prima. Gli operai hanno dovuto sospendere il lavoro in tutti gli stabilimenti e recarsi inquadrati e preceduti da fanfare alla manifestazione. Il figlio di Giovanni Agnelli (e padre di Gianni) sta sul palco in divisa fascista. Mussolini concede l’avallo a un grosso prestito per forniture militari alla Turchia, alla Grrecia e all’Argentina; poi fa sapere, però, che è ormai opportuno che il senatore prenda la tessera del partito. E questi lo farà, forse con scarso entusiasmo, ma anche senza esitazione.

Elena Croce, la figlia del filosofo, osserverà a questo proposito:

Agnelli affettava con umiltà un’ssoluta innocenza nelle cose della cultura e della politica, ma non ci voleva molto ad accorgersi che la prima era fatta di disprezzo, e la seconda di calcolo e paura.

Agnelli e Valletta hanno ormai tutte le porte aperte a Roma: riescono a bloccare un progetto di monopolio delle ferrovie statali nel trasporto pubblico e un altro di una speciale tassazione degli automezzi pesanti, che viene fatto cadere in concomitanza con l’uscita di un nuovo modello di autocarro. L’Alfa Romeo viene inspiegabilmente sostituita dalla Fiat in alcune grosse forniture ai cantieri navali di Monfalcone. “Nella mutata economia politico-sociale del paese guidata da S.E. il Capo del Governo – dichiara Agnelli – anche l’industria trova una nuova comprensione dei suoi fini nazionali e sociali”.

E intanto ottiene anche: l’esenzione della Balilla dalle tasse di circolazione; la revoca delle misure restrittive dei servizi automobilistici rispetto alle ferrovie; l’estensione della speciale protezione doganale prevista per le auto a tutte le costruzioni meccaniche sussidiarie. Sempre nel supremo interesse nazionale…

Nel 1935, tuttavia, la Fiat corre un brutto rischio: mentre estende sempre più il proprio impero, conosce alcune difficoltà produttive, che spingono il ministro della Guerra a ricorrere all’odiata rivale Ford per l’acquisto di 3.000 autocarri, necessari all’invasione dell’Etiopia. Solo con qualche ritardo la Fiat riuscirà, poi, a fornirne altri 5.000, ottenendo in cambio un’attenzione privilegiata nella fornitura di materie prime e lauti risarcimenti per la perdita di mercati esteri a seguito delle sanzioni decise contro l’Italia, dopo l’impresa di Etiopia, e della conseguente politica autarchica (in nome della quale aveva, peraltro ottenuto vaste concessioni di zone alpine per la ricerca di minerali “nazionali”). Sempre con il contributo statale, la Fiat costruisce in Veneto stabilimenti per la produzione di vetro in lastre, cementifici, fabbriche per la produzione di materieplastiche derivate dal catrame, e acquista perfino risaie, nel vercellese e in Emilia-Romagna.

Alla vigilia della guerra, gli operai sono ormai 50.000, il fatturato è passato dai 750 milioni del 1935 agli oltre 2 miliardi del 1937. 

Doppio e triplo gioco durante la guerra.

Alla vigilia della guerra, Mussolini fa la sua terza visita alla FIAT, il 15 maggio 1939. Lo stato maggiore aziendale è schierato in camicia nera, gli operai sono stati condotti a forza nel piazzale dello stabilimento non ancora completato di Mirafiori (inizialmente visto con diffidenza dal governo fascista, che temeva le concentrazioni operaie troppo numerose).

Mussolini arriva su un’Alfa Romeo, allora concorrente della FIAT, e questo non piace ai dirigenti né agli operai, che hanno però altre ragioni di dissenso. I 50.000 operai non rispondono con ovazioni alle consuete tirate oratorie del “duce”, il quale si irrita sempre più. Chiede se ricordano un suo precedente discorso, ma la piazza rimane muta, e Mussolini sbotta, paonazzo d’ira: “Se non lo avete letto, andate a leggerlo, se non lo ricordate, andate a rileggerlo” e volta le spalle, sibilando “questi piemontesi, tutti dei porci”.

Non c’entrava il Piemonte, evidentemente, ma la rinascita di un’opposizione di classe. Lo aveva ammesso poco tempo prima un rapporto riservato del Prefetto di Torino, che affermava:

la grande maggioranza delle maestranze metallurgiche della Fiat, nonostante la sua appartenenza formale al partito fascista, è rimasta quello che era, socialista e comunista per convinzione.

E il federale fascista Gazzotti aveva segnalato anch’esso con amarezza:

questa Fiat resta, nella sua manodopera, socialista e comunista, Non c’è quella partecipazione che ci si potrebbe attendere da una folla di miserabili disoccupati che da tutte le regioni d’Italia sale a Torino per fare della Fiat la più alta concentrazione operaia di tutto il Paese

Agnelli, intanto, si preparava alla guerra che, però, sperava lasciasse fuori l’Italia: infatti, fino ad un giorno prima delle due aggressioni, aveva continuato a fornire autocarri alla Francia e alla Grecia… E durante la guerra mantiene buoni rapporti con l’occupante tedesco, un po’ meno buoni con la Repubblica sociale italiana, la Repubblichina di Salò, che lo vorrebbe come ministro e non conta nulla. Mantiene buoni rapporti attraverso vari dirigenti con gli antifascisti moderati, ma anche con i comunisti, che ai primi di marzo del 1943 hanno scatenato il grande sciopero generale contro la guerra. Difende i suoi operai dalla deportazione in Germania (che colpisce comunque una parte dei “facinorosi”), ma convincendo i nazisti che sono essenziali per la produzione e che, spostando i macchinari e gli uomini, si perderebbero mesi preziosi. Per fermare gli scioperi, di cui conosce bene il movente politico ma anche il legame con le rivendicazioni economiche, concede forti aumenti, indennità, premi. I nazisti capiscono, i fascisti protestano, ma vengono tacitati con una visita di Valletta a Salò, dove questi dichiara di essere riconoscente per la legge sulla socializzazione e di essere pronto ad applicarla. Il 6 marzo 1945 si svolgono le elezioni per approvare o respingere il progetto: parteciperanno solo alcuni fascistoni, pari allo 0,6% dei lavoratori. Mussolini è furioso e minaccia ritorsioni, ma non fa in tempo, perché deve cominciare a preparare lo sgombero del Garda, per arroccarsi nel “ridotto della Valtellina”, da cui far ripartire la controffensiva. In realtà, si prepara la fuga, che finirà a Dongo.

I comunisti salvano le fabbriche, che sono state minate dai nazisti, e se ne impossessano. Le restituiranno, poi, in nome dell’unità nazionale, ad Agnelli, Valletta sarà assolto dall’accusa di collaborazionismo, adducendo come meriti i contatti avuti con esponenti alleati, nonché la sua capacità di ottenere dagli ufficiali tedeschi la salvezza degli stabilimenti. In realtà, ad ogni minaccia di smantellarli, si rispondeva garantendo l’aumento della produzione, facendosela, peraltro, pagare subito, probabilmente con i beni rastrellati in tutta l’Europa. Il giovani Gianni Agnelli, che si era fatto mandare in Russia (dove stava comodamente installato in una casa ben riscaldata e fornita di ogni ben di Dio, assai lontano dal fronte) e poi in Africa 8ugualmente senza l’ombra di un pericolo), si presenterà con un curriculum di “partigiano”. In realtà, aveva tentato di raggiungere una sua tenuta vicino ad Arezzo su un’auto guidata da un maresciallo tedesco a cui era stata offerta una macchina per i suoi servigi, ma aveva avuto un’incidente d’auto ed era stato ricoverato a Firenze, dove aspettò gli alleati presso i quali si arruolò come ufficiale di collegamento.

Gli unici a pagare sono stati gli operai, che avevano salvato le fabbriche. Agnelli e Valletta aspettarono poco tempo, per avere l’appoggio dei governi centristi a un nuovo rilancio industriale e per trovare il momento buono per licenziare tutti i più combattivi. Per qualche tempo, si tratterà solo di spostamenti nei “reparti confino”; ma, una volta reciso il legame tra le avanguardie e la massa, disorientata per la perdita rapida di tutte le conquistefatte, sarà la cacciata definitiva dalla Fiat.  Ma questa è un’altra storia…

[Tratto da: Il ‘capitalismo reale’, di Antonio Moscato, Teti Editore, Milano 1999]


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