È un pomeriggio di maggio del 2010, nel carcere di Opera, a Milano, il colloquio tra l’eurodeputata e il boss si è infranto su un muro di diffidenza: la prima gli ha chiesto di collaborare, l’altro, Giuseppe Graviano, ha risposto in un puro stile mafioso: “Non ho fatto nulla, mi chiede di accusare innocenti? Se è così, non abbiamo nulla da dirci”. Il saluto reciproco segna la fine del breve incontro, le sbarre della cella si chiudono, la parlamentare si allontana con la sua assistente lungo il
corridoio del braccio carcerario. Quando, improvvisamente, il detenuto ci ripensa e chiama: “Onorevole, venga un momento”. E con la voce nervosa e impastata, consegna a Sonia Alfano (Idv) una frase che riapre tutti gli interrogativi sul suo silenzio, in aula, a Palermo, nel dicembre del 2009, al processo Dell’Utri, quando si avvalse della facoltà di non rispondere: “Se io avessi parlato di Berlusconi, confermando quello che aveva detto Spatuzza, Berlusconi sarebbe finito in galera ed io sarei diventato la persona migliore del mondo. Ma ero tra due fuochi”.
Il fuoco di cosa nostra e la torcia che potrebbe illuminare quel patto raccontato da Spatuzza, secondo cui i boss di Brancaccio avevano agganciato nel 1993, durante la stagione delle stragi, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi? Sonia Alfano è incerta e oggi si chiede: “È stato un segnale mafioso o solo la frase di un uomo disperato? In quel momento non c’è stato il tempo di approfondire l’argomento perché – racconta la parlamentare – la guardia carceraria è intervenuta invitando il detenuto a troncare la conversazione”.
Ma i dubbi restano, e sono riproposti accanto alla inedita rivelazione, contenuta nel libro della Alfano, La zona d’ombra (Rizzoli) da ieri in libreria e che sarà presentato alla libreria Kalhesa di Palermo domenica 10. Un lungo racconto autobiografico nel quale l’europarlamentare di Idv riassume tutta la sua esperienza di vita dopo l’omicidio del padre, il giornalista Beppe Alfano, che si è trasformata in un’occasione per descrivere le difficili vicende giudiziarie parallele al processo per la morte del genitore.
“Un processo segnato da depistaggi – dice la Alfano – fino ai momenti più difficili in cui noi familiari siamo stati costretti a difendere la memoria di mio padre, che in molti hanno cercato d’infangare”. Beppe Alfano, collaboratore de La Sicilia, muore ucciso per mano mafiosa l’8 gennaio del 1993, mentre si trovava alla guida della sua auto, in via Marconi, a Barcellona Pozzo di Gotto. E nonostante una condanna a 30 anni passata in giudicato per il boss Giuseppe Gullotti, si continua a indagare sui mandanti occulti. Nel libro Sonia Alfano racconta la sua discesa nel girone infernale dei mafiosi detenuti al 41 bis, specialmente nel carcere di Opera, dove è avvenuto l’incontro con Graviano e dove ha “visitato’’ le celle dei due capi di Cosa Nostra corleonesi, Totò Riina e Bernardo Provenzano. “Prima ero governata da un sentimento di odio verso gli assassini di mio padre – dice – poi però ho deciso di mettere da parte i sentimenti negativi, che non portano a nulla, e ho cercato di riflettere. Per questo ho incontrato quasi tutti i boss mafiosi, per cercare di comprendere meglio cosa li avesse spinti a scegliere una vita del genere”.
E se Graviano, prima della sua rivelazione, si è lamentato con l’europarlamentare non tanto per le restrizioni del carcere, ma per non poter abbracciare suo figlio, nato dalla fecondazione artificiale (“ma lei, signor Graviano, ci doveva pensare prima di commettere reati”), Totò Riina le è apparso “vivace e un po’ sbruffone”.
“Mi ha detto: ‘A voi parlamentari vi farei fucilare tutti, non fate nulla per farci vivere meglio qua dentro’. E io gli ho risposto: ‘Fino a quando continua a fare queste minacce, che cosa si aspetta, signor Riina?’”.
Ma è l’incontro con Bernardo Provenzano che l’ha impressionata di più: “Ho avuto davanti il prototipo del boss, era coricato sulla sua branda, si è alzato lentamente e quando gli ho chiesto, ripetutamente, se avesse bisogno di qualcosa mi ha detto di no, che aveva tutto quello che gli serviva. Io ho insistito, ricordandogli che altri detenuti si erano lamentati, ma lui è stato irremovibile pronunciando solo questa frase, un po’ criptica: ‘Nella vita solo i grandi uomini fanno grandi cose, poi arriva la natura e fa il suo corso’. Ci siamo guardati negli occhi alcuni lunghissimi secondi, poi mi sono girata e sono andata via”.
(Giuseppe Lo Bianco, 07 aprile 2011)
Fonte: Il Fatto quotidiano
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giovedì 7 aprile 2011
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